top of page

L’uomo che ha fatto le scarpe alla vita
 

foto di Giovanni Scotti / testi di Giovanni Chianelli

— Questo articolo è il primo di una serie che accompagnerà i lettori dell’Espresso Napoletano per tutto il 2016. Ogni mese il fotografo Giovanni Scotti propone percorsi, di immagini e parole, che lo hanno portato a incontrare alcune professionalità uniche di Napoli. Persone che credono nel loro speciale mestiere e che a questo hanno consacrato una vita.

​​“Un hombre se juzga por su zapato. Si el zapato està sucio, el hombre es sucio. Si está limpio, el hombre es limpio”. Chissà se Don Salvatore, calzolaio ottantatreenne di Bagnoli, conosce questo detto spagnolo.
Un adagio sul parallelo tra l’uomo e la sua calzatura, che prescrive un’equazione tanto curiosa quanto inequivocabile: un uomo si vede dalla scarpa, poche storie. Eppure Don Salvatore il suo mestiere lo deve alla lontana proprio alla dominazione spagnola. Se non la necessità di riparare le calzature, che pure doveva essere diffusa prima dello sbarco degli Aragonesi nel sud dell’Italia, il metodo, l’organizzazione, la sacralità di certe professioni nasce proprio in questo periodo. Prova ne sia la distribuzione geografica delle professioni per aree della città, pensata ai tempi del vicerè Toledo e intatta, sostanzialmente, ancora oggi. O qualche indizio onomastico: come il termine ciabattino, più legato alla traduzione iberica che all’equivalente italiano dove per ciabatta intendiamo un sottoinsieme.

Ciabattino, calzolaio, scarparo, solachianelle. Siamo là. Un mestiere tanto antico da diventare attuale, in un’epoca che per anni ha conosciuto una corsa sfrenata ai consumi e oggi, mentre si lecca le ferite inferte dalla crisi, riscopre l’importanza non folkloristica di alcune professioni. Che tornano utili, quando il recupero di vestiti ancora utilizzabili coincide con l’esigenza di risparmiare. E sono una finestra non banale sul passato, su un mondo fatto di utensili in via d’estinzione e mani al lavoro, odori e tessuti, piccoli accorgimenti e grande sapienza.​​​

Prove della capacità umana di opporre intelligenza al tempo che passa. Perché il calzolaio realizzava scarpe; ma la parte più consistente del lavoro erano le riparazioni.
Il motivo è semplice: farsi confezionare un paio di scarpe nuove costava molto di più che ripararle.
Don Salvatore queste cose le sa ma non se ne cura. Nel senso che il progresso, tecnologico e di consumi, non ha mai minacciato il suo lavoro.
Lui lo pratica da quando era adolescente: “Iniziai ricucendo una palla di pezze con cui giocavo per strada, insieme agli amici. Si strappava spesso e io la rimettevo in sesto, scoprendo una certa abilità”.
Lo fa con tecniche tradizionali ed entusiasmo invariato. Don Salvatore è un piccolo grande uomo che porta avanti la sua personale battaglia, silenziosamente, in compagnia della sua radio.

Nella sua “puteca” a Bagnoli serve da sempre i clienti più affezionati, quelli che ha conquistato negli anni con simpatia e cortesia, ma soprattutto professionalità e onestà. Perché è convinto che questo lavoro, oltre a una risposta in corsa alla penuria di denaro in circolo, potrebbe rappresentare un’opportunità di futuro per molti giovani. Così come altre professioni che oggi suonano passate. Tuttavia, “nessuno vuole più imparare ‘o mestiere”, dice, rassegnato ma sereno. Entrare nella sua bottega resta un’esperienza pressoché surreale, come se fosse ormai impossibile la ‘resistenza’, in senso antropologico, di luoghi del genere. Ma a un certo punto, dopo il contatto iniziale, qualcosa torna a galla. Qualcosa di familiare.
Si ricorda, ci si ritrova, ci si mette a pensare che fino all’altro ieri questo era un posto e un lavoro comune. Ora è speciale.

Sarà la mistica. L’atmosfera d’antan, la risultante di quel mix di odori e immagini che creano l’identità di una bottega: il vasetto della colla, le varie “cromatine”, gli strofinacci per la lucidatura, le puntine di varie misure, i ritagli di cuoio, i tacchi già forgiati di tutte le risme, suole di ogni foggia che vanno incollate o inchiodate per poi essere limate ai bordi.

Il nero e il grigio i colori preminenti in tutto l’ambiente ma, nei mucchi di scarpe, facendo attenzione, si scorge la fantasia di qualche stoffa estiva, il marrone chiaro di un mocassino ancora utilizzabile, il rosso sfrontato degli scarpini da donna dal sinuoso tacco a spillo. E poi c’è lui, Salvatore. Chiodi tenuti fra i denti per comodità, intento a prelevare dal bagno di solvente la suoletta da attaccare alla calzatura.
La tecnologia? Gli è indifferente, non la ammonisce e neppure la giudica, l’accetta ma ha scelto di non sceglierla. Semplicemente non gli interessa, perché non gli serve.

Gli servono invece rocchette di cotone, coltellini, pinze, scalpellini, fibbie, spazzole, aghi.
Oltre agli ormai antichi strumenti da lavoro, Don Salvatore nel tempo si è circondato degli oggetti più bizzarri, per lui i ricordi di una vita, lavorativa e non solo. Oggetti in ferro, curiosi amuleti, riproduzioni di animali e di elementi naturali. Tutti molto colorati. Come se volesse, in qualche modo, far fiorire l’interno del suo antro. Colpiscono alcune miniature di scarpe che lui da sempre si diletta a realizzare.
Un passatempo e un modo per raffinare il suo mestiere anche in senso artistico. Hanno un che di magico, è facile immaginarle ai piedi di una bambola. Poi c’è altro. I tacchi a spillo all’ingresso, che inchiodano un tabellone di orari di lavoro. “Non ricordo più perché mi sono rimaste. Forse le donne che le calzavano non le hanno più riprese per via di un nuovo paio che le aveva conquistate.
Sa, le donne”, dice sorridendo. Ma danno all’ambiente un che di civettuolo che spicca, senza stonare, nella pacata laboriosità dello spazio.

E poi i vari pantheon. Colpiscono subito tutte queste immaginette, votive e non, che Salvatore pare aver scelto per protezione e compagnia. Da sempre effigi, ex voto, figure di vario tipo compaiono nei posti degli uomini soli: da quelle scollacciate di officine e garage alle familiari, con parenti scomparsi, presenti nelle mercerie, passando per i modelli appesi alle pareti delle sartorie. Salvatore ha dato spazio a un’umanità vicina e lontana: c’è l’antico, vedute dei paesaggisti napoletani, insieme al moderno, il cantautore Edoardo Bennato, nume tutelare laico del quartiere. C’è Totò, che ai ciabattini dette comica vetrina ne “Il monaco di Monza”, fabbricando solo scarpe destre per la rabbia di Mario Castellani, ma anche, a far capolino tra farfalle, frutta, ferri di cavallo e fibbioni di cinture, il volto del Redentore.
Fa sorridere, invece, un quadro di insieme di personaggi dello spettacolo che Salvatore ha realizzato da solo ritagliando foto da giornali diversi: i personaggi di “Beverly Hills 90210” e “Beautiful” in compagnia di Nino Frassica, Enzo Biagi, i coniugi Vianello, Marco Columbro e Pippo Baudo. Così, mentre Brenda Walsh chiacchiera con ‘bisteccone’ Galeazzi e Ridge inciucia con Sandra Mondaini, il nostro Salvatore aggiusta un tacco e ripara una punta. “Quanta strada nei miei sandali”, cantava Paolo Conte. Già.
Salvatore potrebbe fargli eco: da lui anche due secoli distanti tra loro vanno a braccetto senza problemi, mentre il tempo passa e le suole si consumano. “Per fortuna”.

© 2025 Giovanni Scotti

bottom of page