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La storia dei Russo, la storia del marmo

 

foto di Giovanni Scotti / testi di Danilo Re

— Ogni mese il fotografo Giovanni Scotti propone percorsi, di immagini e parole, che lo hanno portato a incontrare alcune professionalità uniche di Napoli. Persone che credono nel loro speciale mestiere e che a questo hanno consacrato una vita.

Al civico Cinquantuno di via Bisignano una coltre leggerissima di polvere bianca ricopre ogni manufatto. All’interno degli angusti locali officiano una messa laica dei ministri, investiti direttamente da chissà chi. Alzano verso la volta, adornata da capitelli dorici e corinzi, uno scalpello ed intonano canti rivolti alla bellezza. Qui è di regola il culto per il marmo. “Bianco come il marmo”, “Duro come il marmo”, “Dal cuore di marmo”, non c’è accezione negativa che tenga per una roccia tanto nobile, incorruttibile che dal proprio ciclo di sgretolamento si presta a svelare opere d’arte.

Su di un’insegna troneggia a caratteri cubitali “Ditta Domenico Russo e Figli”. La bottega, il laboratorio uno tra gli ultimi rimasti in Città per la lavorazione del marmo è presente qui, nel cuore del quartiere di Chiaia, dai primi anni del Dopoguerra . Percorriamo a ritroso la storia, raggiungendo il Milleottocentottanta perché la dinastia dei marmisti Russo ha una storia ben più lunga. Tutto iniziò con Giuseppe Russo, artigiano, padre di Domenico, da un locale nel quartiere Sanità, in via Santa Maria Antesaecula. Con Giuseppe collaborava nei lavori quotidiani, tra minuziose rappresentazioni scultoree di rilievo e libere rappresentazioni di soggetti da ammirare da tutti i possibili angoli di osservazione, Vincenzo Gaeta.

Successe che il giovane Domenico, mentre spostava alcune lastre di pregiato materiale marmoreo nella bottega dello zio Vincenzo, che aveva sposato una sorella della madre, ne ruppe accidentalmente una. Tuoni e fulmini: “Mò te manno a bottega addò Guida”. Disse il parente. Iniziava in questa maniera il percorso di un artista, dalla Sanità sino al civico Cinquantuno di vico Bisignano, passando per via Carlo Poerio.

Domenico Russo, grande artigiano, fu l’antesignano di una generazione di marmisti, una processione di artisti che hanno alimentato una produzione dal crescente pregio. Marchesi e baroni hanno consegnato il disegno del proprio stemma gentilizio a Don Mimì. A lui, ai figli Nicola e Gennaro, e poi ancora ai nipoti, esempi viventi di mestieri secolari che non muoiono, Domenico, Fabio e Dario, il politico Giulio Andreotti si rivolse per un’opera marmorea che troneggiasse nella sala da pranzo della propria residenza romana. L’ammiraglio statunitense Henry Herrward commissionò alle maestranze della Ditta un tavolo ricco d’intarsi. Il presidente americano George W. Bush custodisce oggi una copia in marmo eseguita dai Russo attraverso la tecnica dell’intarsio dell’opera di Antonio Joli “Veduta di Napoli con la partenza di Carlo di Borbone per la Spagna”.

I Russo sono gelosi dei propri tesori. Vigilano su di essi anche da lontano. Amano il bello, con una sensibilità artistica che si affina di manufatto in manufatto. Hanno il proprio caveau, un locale blindato, sotterraneo, al quale è possibile accedere attraverso un portone secondario, superando l’atrio interno di un palazzo. Vi custodiscono i marmi più antichi, quelli con i colori più vivaci, quelli con le venature più ramificate che da un punto si irradiano sull’integrità del pannello. Sono artisti, ai quali perdoniamo i segreti del proprio lavoro. Ci accontentiamo di ammirare le opere una volta estratte dalla materia prima.

© 2025 Giovanni Scotti

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