Anema e corde
foto di Giovanni Scotti / testi di Giovanni Chianelli
— Ogni mese il fotografo Giovanni Scotti propone percorsi, di immagini e parole, che lo hanno portato a incontrare alcune professionalità uniche di Napoli. Persone che credono nel loro speciale mestiere e che a questo hanno consacrato una vita.










Fanno un mestiere tra i più antichi della storia, quello di liutai. Lo praticano con tecniche antiche e strategie dei tempi di oggi. Perché hanno in media sui trentacinque anni ma non glielo ricordate.
O almeno, quando ve lo comunicano, non vi sorprendete. Anche se ultimamente sono stati lodati dal sindaco, che ha sottolineato i frutti di un duro apprendistato ai fini della professione, l’età non conta.
Non vogliono essere chiamati giovani e hanno ragione: sono maestri. Maestri con tanto di diploma, rilasciato da Antonio Caravano, principe dei liutai napoletani. È proprio a un suo corso, tredici anni fa, che si sono conosciuti e hanno deciso di provarci in proprio. L’incontro, un anno di studio, la ricerca sullo spazio e il gioco è fatto. Si chiama “Anema e corde” e si trova al centro della strada che collega i due archi di Port’Alba. Loro sono Clara Contadini, Alessandro Zanesco, Salvatore e Pasquale Mancino.
A proposito, tre su quattro mancini lo sono anche di fatto: “Io no”, dice Pasquale, l’unico a fare eccezione. “Ma tanto recupero col cognome”. Un tempo si era diffusa la voce, sostenuta da ricerche chissà quanto accreditate, che i mancini nascessero con una vocazione speciale alla manualità, all’arte, all’estro in generale. Vai a vedere se è vero. Però qui la coincidenza colpisce. E colpisce pure che proprio loro si cimentino su strumenti che, di solito, sono nati per i destrorsi.
Strumenti a corde. “Ci occupiamo della famiglia degli archi, dei plettri e degli strumenti a pizzico”. Hanno in cura tre nuclei familiari. Come medici condotti, solo che i loro pazienti sono violini, viole e violoncelli. Mandolini, mandole e mandoloncelli. E poi chitarre, classiche ed elettriche. Oltre alla medicina c’è l’ostetricia: “Restauriamo e costruiamo”.
Nella parte di restauro può capitare di imbattersi anche in oggetti antichi e preziosi. A loro è passato per le mani addirittura un Pietro Guarneri del 1679. Valore? 650.000 euro o giù di lì. Poi c’è la costruzione ed è forse la voce maggioritaria del loro lavoro. Centinaia di pezzi ogni anno.
Con una filosofia precisa: prima di tutto, esclusivamente costruiti a mano. “Questo fa sì che ogni strumento si possa considerare una vera e propria opera d’arte, unica e d’autore, in opposizione al dilagare di strumenti impersonali o seriali”. Poi, si usa solo materiale organico. Abete della Val di Fiemme e acero dei Balcani. Per assemblarli colla di coniglio, le decorazioni in argento e madreperla: “Sono oggetti costruiti per durare”, spiega Clara. Perciò costano un po’ in più, ma funzionano a lungo.
La clientela è varia. Studenti, collezionisti, musicisti del conservatorio. Per diffondere il loro lavoro e per approfondire conoscenze e contatti i liutai di “Anema e corde” girano parecchio. Almeno due grosse fiere l’anno: “Mondo musica” a Cremona e la “Musikmesse” di Francoforte. Il resto lo fa internet, con un costante aggiornamento su materiali e compravendita.
Ad accogliere gli ospiti nel loro laboratorio c’è splendida musica classica. Alcuni di loro suonano, altri sono intenditori, altri meno. Come capire che un pezzo è venuto bene? “Basta averlo fatto con precisione e rigore e il risultato arriva”, dicono. Incredibile. Le regole come garanzia di buona riuscita. Metodo e tempi: per fare ognuno di questi strumenti ci vogliono minimo due mesi. E un complesso lavoro di incastri, misure millimetriche, torsione del legno. Tra il piano armonico e il fondo è tutto un lento, inesorabile incontro di forme. Affascinante la realizzazione del retro bombato tipico del mandolino: “Consiste nel piegare a mano singolarmente le doghe che compongono la cassa armonica con un ferro rovente, dando loro una curva armonica e lineare alla forma sulla quale vengono poste.
Successivamente, sagomare le facce laterali dando una perfetta aderenza tra le doghe. Infine con colla a caldo alle due estremità si ferma la doga sugli zocchetti superiori ed inferiori della forma, ancorandola alla doga precedente con una carta paglia che funge da morsa”, spiegano.
L’ispirazione finale segue uno stile e qui c’è di mezzo la tradizione. Le forme degli archi, ad esempio, derivano dalla scuola napoletana dei Gagliano. Una storia di eccellenza: è stata una famiglia di liutai particolarmente prolifici nella costruzione degli archi. Da queste parti violini, violoncelli e viole discendono principalmente da loro. I loro prodotti erano costruiti generalmente su modelli Stradivari e si avvalevano di una vernice tipica: di colore arancio dorato, talvolta macchiata. Qualcosa resta, di questa sfumatura che attraversa i secoli. Per esempio nei riflessi del laboratorio. Prevale infatti la tonalità del legno, dal mogano al castagno. Molto riposante e caldo, così come l’atmosfera complessiva. A testimoniare questo orientamento c’è anche un tableau vivant: si chiama Charlie ed è un cane bellissimo, color ruggine scuro. Sembra che fiuti l’intenditore di musica a naso. Vivace e silenzioso. Anche Charlie è in cooperativa, ha quattro padroni. Anche se sembra non averne alcuno.
Sì, non si sente alcuna gerarchia. Tutti fanno tutto. Anche se, col tempo, ognuno dei liutai ha trovato una sua specializzazione “all’occorrenza siamo elastici. Non potremo fare altrimenti”, spiega Alessandro. Questo ha una logica: sono nati insieme e insieme stanno crescendo.
Clara dice che avviene costantemente: “Più vai avanti e più ti accorgi che non sai niente”. Socratica. “Meno male”, aggiunge. “Forse è l’antidoto alla noia, allo stress, a tutto ciò che può portare distacco dal lavoro”. Il locale è vasto. Ha un aspetto caotico solo in apparenza: legno, arnesi, boccette con colori.
Un tavolo centrale e vari appoggi nei lati. Solo standoci un po’ si capisce che tutto obbedisce a una disposizione logica. Perché è un posto dove soprattutto si lavora. E perciò non può concedersi nulla del civettuolo: la sua bellezza deriva dalla sostanza, dalla compattezza necessaria a quello che si crea, restituita pure dalle pareti coi mattoni a nudo. Una ruvidezza da cui, testarda, si sprigiona l’arte.