top of page

Vesti un legno, pare un regno

 

foto di Giovanni Scotti / testi di Giovanni Chianelli

— Ogni mese il fotografo Giovanni Scotti propone percorsi, di immagini e parole, che lo hanno portato a incontrare alcune professionalità uniche di Napoli. Persone che credono nel loro speciale mestiere e che a questo hanno consacrato una vita.

“Per molto tempo fui ebanista / un operaio in borgo d’Ognissanti...”. Così cantava Vinicio Capossela nel 2000. Il brano era “Decervellamento”. I molti ascoltatori di quell’album, “Canzoni a manovella”, tra i più grandi successi del cantautore di origine irpina, si saranno sicuramente chiesti perché la scelta di quell’attacco che consacrava un mestiere dal sapore antico e, apparentemente, misterioso.

Chi è precisamente un ebanista? “Il falegname di città”, è la prima risposta di Giovanni D’Angelo, uno degli ultimi, nonché migliori, esponenti di questa nobile categoria. Certo, la definizione è suggestiva. Ma non esaustiva: “La differenza con i falegnami sta nella definizione. Loro producono manufatti più grossi e meno ricercati. Noi facciamo lavori di precisione”, continua lui.
Ci siamo? Quasi. “In definitiva l’ebanista è quello che assembla la produzione di tornitori, intagliatori e intarsiatori”. Bene, su questi torneremo un’altra volta che sennò non ci si raccapezza. Intanto Giovanni sorride.

È divertito nel notare la curiosità per una cosa che a lui deve sembrare naturale. Sono infatti quattro generazioni che la sua bottega è in vita: iniziò il bisnonno sul finire del diciannovesimo secolo. Hanno continuato gli eredi, fino a lui e i suoi fratelli. “Però temo che questa dinastia chiuderà con noi. Ai nostri figli sconsiglierò di prendere le redini della nostra attività”. Come mai? Sembra affascinante. “Sicuro. Ma è dannatamente difficile e poco gratificante da altri punti di vista”. Nel dirlo sfrega il pollice e l’indice nel proverbiale cenno che, a molte latitudini, fa riferimento al denaro. Eppure le librerie, le cassapanche, gli armadi e i tavoli, un po’ tutto il mobilio che è stipato qui dentro sembra di gran valore. “Lo è. Ma lo Stato, con le sue tasse, rende anche un lavoro di prestigio poco remunerativo”.

E i giovani, in generale? Come lo vedono un mestiere del genere? “Anche su quel versante poche soddisfazioni.
Qualcuno viene a provare ma dopo pochi giorni scappa via. Hanno paura di faticare, ormai. Oppure si comportano male e qui il rispetto è tutto. Ma niente, come si dice a Napoli “traseno ‘e sicco e se mettono ‘e chiatto”. Proprio nel finale di “Decervellamento” Caposella dice: “In via dell’euchadé da malaccorti / si parte vivi e si ritorna morti”.

Certo che, guardando alcuni mastodontici e delicatissimi pezzi, posizionati in quello che è definibile come un antro, immerso nei vicoli dietro il Conservatorio, cuore del centro storico, non si fa fatica a comprendere che sia un’attività tosta. In grado di mettere a dura prova chiunque, figurarsi le fragili fibre di un ragazzo del nuovo millennio. “Confermo. Per ogni pezzo ci possono volere mesi. Non solo: dopo averlo assemblato tocca smontarlo, per il trasporto”. Giovanni continua a sorridere. Mentre immagina con terrore il triplo sforzo di creazione, distruzione e resurrezione come una dialettica sacra, o quanto meno hegeliana, lui non fa una piega. Deve essere innamorato del suo lavoro. “Necessariamente. Sennò, davvero, non ne varrebbe la pena”. La clientela pure inizia a scarseggiare.

Ormai per i mobili bastano qualche centinaio di euro e si hanno camere complete.

A nessuno interessa che siano di cartone pressato, che durino il tempo di un amen, che siano antiestetici. “O cancerogeni, per via di vernici ‘assassine’”. Siamo sempre là. Le multinazionali ignorano la poesia che già nel nome confeziona il rovere, la casta consistenza del ciliegio, il fascino austero del mogano o la ruvida fantasia di un ulivo. Ma è come parlare di pianeti distanti: Giovanni appartiene a un’epoca in cui le cose venivano fatte per durare, e se spendevi un po’ di più eri sicuro di come avevi impiegato il denaro. “Restano pochi amatori. Gente che se lo può permettere. Professionisti affermati con grandi spazi e il senso del bello”.

Il bello per davvero, quello con la “b” maiuscola. Anche perché col legno si può inventare tanto.
Da una vecchia porta, ad esempio, può venir fuori una meravigliosa dispensa. Basta scollare il vetro con attenzione e costruirne i lati. Da un’antica libreria escono pezzi che trovano nuova vita come splendidi oggetti d’arredo. L’antro di Giovanni è disseminato di curiose immagini, di effigi misteriche.

Alcune gambe di un tavolo iniziano da volti che ricordano le matres matutae capuane: facce solenni da dee del focolare. Su un portone ancora non restaurato fa capolino la chanson de geste: lo ha disegnato uno scultore siciliano in otto momenti. Chi poteva immaginare che un uscio riportasse una favola? “Prima si badava alla solidità senza trascurare la bellezza”. Ecco, in una sola frase il senso di una missione. Che poi si incarna in tempo e attesa. L’attesa che si sciolga la colla, per dirne una. Colla rigorosamente proveniente da ossa animali, ridotte in un pulviscolo sufficientemente puzzolente da assicurare a vita la tenuta di vecchie assi, poi consolidate da farfalline lignee, vezzose, che chiudono definitivamente i conti col passato: “Con qualche accorgimento questa roba è immortale”.

Ci vuole esperienza per ragionare con macchinari che hanno quasi un secolo, come le immense seghe verticali sparse in vari punti della bottega: fanno paura solo a guardarle. Giovanni e Giuseppe le maneggiano come docili agnellini. E ci vuole senso della perfezione pure nello scegliere la gommalacca autentica, quella ricavata da infaticabili insetti che depongono le uova magari sotto i monsoni dell’India, ignari del fatto di aver prodotto il migliore sistema di otturazione dei pori che il legno, inevitabilmente, riporta.

Insomma, la cura. A volte prende la forma di un locale semplice, dimenticato in una stradina secondaria, senza insegne. Dove si respira segatura e sudore ma non c’è paragone: nessuna nuova catena può essere alla pari con l’ennesima riprova che l’uomo è ingegnoso. Che può aver ragione della materia proprio quanto più la rispetta. Come il rapporto tra il vero cacciatore e la preda, l’ebanista ama il legno su cui si cimenta. E per quel legno è disposto a sfidare il progresso, il consumo e un orizzonte incerto.

© 2025 Giovanni Scotti

bottom of page